domenica 29 marzo 2009

Se tornano i Talibani per noi è la fine



Da La Repubblica

di Francesca Caferri

KABUL - Dietro la sciarpa nera che le nasconde il viso, la voce di Wahida suona dolce e tranquilla. "Il mio lavoro è occuparmi della sicurezza. Vigilo che tutti indossino casco e scarpe, perché nessuno si faccia male in cantiere". Mentre parla, intorno a lei si muovono decine di operai. Tutti uomini. Qualcuno le passa accanto e lancia sguardi di fuoco: lei finge di non vedere.
Wahida è un nome falso. La giovane madre venticinquenne che parla nascosta dalla sciarpa è una delle due donne sugli 850 operai che stanno costruendo, con fondi americani, la nuova centrale elettrica di Kabul. Ogni giorno viene al lavoro insieme a suo marito, Sahid. Ogni giorno riceve minacce di morte. "Sono le persone con cui lavoro. Sono anche Taliban certo, ma qualcuno qui dentro li aiuta", dice. Mentre parla arriva un sms, Wahida lo apre e poi mostra il telefono: "Vede? Anche ora. Dicono che mi uccideranno se continuo a lavorare. Ma io non mi fermo. Il nuovo Afghanistan ha bisogno delle sue donne. E i politici che parlano di dialogo con i Taliban dovrebbero ricordarselo" (...) il voto è previsto ad agosto - e dal calo di popolarità, il presidente Hamid Karzai è tornato a proporre nelle settimane scorse un accordo ai Taliban moderati (...) ma molte qui in Afghanistan temono che prima o poi le trattative si apriranno, e che gli ex studenti di religione possano tornare sulla scena (...)
"Non torneremo indietro" dice Roobina (...)


Ogni tanto, nel calderone delle notizie nostrane sbucano temi su questioni che sembrano provenire da mondi sconosciuti. Per le donne d'occidente - che ancora rivendicano diritti e parità di genere, leggere di condizioni femminili come le suddette suscita profonda amarezza, tanto più quando le parole provengono dalle stesse donne 'velate'.

Qua le chiacchiere paralizzanti del pensiero liberale, quello che si lava le mani di fronte a questioni di discriminazione con la giustificazione del rispetto della specificità culturale del popolo Altro, non trovano posto.

Qua non c'è una specie 'naturale' da salvaguardare se non quella degli esseri umani abitanti il pianeta terra le cui differenze biologiche interne nulla dicono sul valore delle singole specificità. La differenza in tal senso la fa il sociale che connota culturalmente.

Detto ciò, come donna culturalmente formata nella modernità d'occidente, esprimo la mia solidarietà con le donne afghane suddette ed auspico per loro il riconoscimento del diritto ad essere trattate nell'assoluta parità.

martedì 17 marzo 2009

Scuola, il muro di Bari vecchia "Qui crescono i piccoli boss"


Sul quotidiano La Repubblica, sezione Bari: 

"Pochi iscritti o nessuno nelle scuole della città vecchia: chi ha scelto il borgo come luogo di residenza preferisce mandare i figli in altri istituti o è consigliato a farlo. È quanto emerge dai dati sulle iscrizioni. All'elementare, l'anno prossimo, si formerà soltanto una prima, alla media San Nicola, invece, non c'è nessun nuovo iscritto. La materna "Diomede Fresa" è l´unica a non avere liste di attesa. E una direttrice ammette: "qui crescono i piccoli boss". Sottovoce, una dirigente: "guardi, tenga presente che manderebbe suo figlio in classe con bambini che a tre anni sono già dei piccoli boss".

Insomma, pare che bambini di tre anni siano già dei piccoli boss. A Bari, a pochi metri dal teatro Petruzzelli,  regna indisturbato il degrado e la devianza e il problema dei "boss a soli tre anni" non mi sembra di poco conto.

sabato 7 marzo 2009

La bambina e la scomunica


Adriano Sofri, Da La Repubblica

A RECIFE, in Brasile, c'è una bambina di nove anni. Ha un patrigno. Il patrigno abusa sessualmente di lei da quando aveva sei anni. Abusa di lei da tre anni. Il patrigno abusa anche della sorellina della bambina, che ha 14 anni ed è invalida. Ora il patrigno è in carcere. Ora la bambina di nove anni è incinta, di due gemelli.

La bambina ha anche un suo padre, e una madre. La madre spera che abortisca, il padre no.
A Recife c'è un medico che ha preso in cura la bambina, le ha somministrato dei farmaci che hanno procurato l'aborto. Il medico e i suoi collaboratori pensano, come vuole la legge, che non si debba obbligare una donna, e tanto meno una bambina, a mettere al mondo il frutto di uno stupro.
Si sono anche spaventati del rischio che il parto gemellare avrebbe comportato per una bambina di nove anni.

C'è un arcivescovo, a Recife - non importa il nome: non c'è il nome della bambina, né del suo violentatore, perché citare quello dell'arcivescovo - che ha scomunicato senza appello il medico che ha aiutato la bambina ad abortire, i suoi collaboratori, e la madre che ha approvato. Non il patrigno, "perché l'aborto è peggiore del suo crimine". Non la bambina. La bambina non ha l'età per essere scomunicata. Solo per partorire due gemelli. L'arcivescovo ha proclamato - indovinate - che la legge di Dio è al di sopra della legge umana. L'arcivescovo ha tenuto ad aggiungere che l'olocausto dell'aborto nel mondo è peggiore di quello dei sei milioni di ebrei nella Shoah. Peggiore. C'è anche, a Recife, un gruppo di avvocati cattolici che ha denunciato i medici per il procurato aborto: omicidio volontario aggravato, presumo.

C'è, a Roma, il Vaticano e, in Vaticano, la Pontificia Accademia per la Vita. Con una gamma di sentimenti che vanno dall'imbarazzo al dolore alla perentorietà, i suoi esponenti hanno spiegato che la scomunica comminata dall'Arcivescovo di Recife era necessaria. Un atto davvero dovuto, come prescrive il Codice di Diritto Canonico. Un sacerdote del Pontificio Consiglio per la Famiglia, a sua volta, ha soffertamente ribadito che "L'annuncio della chiesa è la difesa della vita e della famiglia". E che i medici sono "protagonisti di una scelta di morte".

(7 marzo 2009)